Tommi Space

La morte di Ivan Il’ič

Straniamento

Tolstoj risuscita, nei suoi lettori, la fustigazione, gliela rende sensibile, gliela fa vedere come se fosse nuova, gliela toglie dall’imballaggio, e il lettore non ha tempo di pensare alle sue convinzioni, ai dibattiti che ha sentito, ha gli occhi pieni di questi uomini denudati, gettati a terra e colpiti sulla schiena con le verghe e colpiti ancora sulle natiche denudate.
Questa tecnica, questo procedimento che Sklovskij ha definito straniamento consiste nel descrivere le cose come se le si vedesse per la prima volta, e a pensarci è vero, Tolstoj, in quel pezzo lì sulla fustigazione, è come se non conoscesse nemmeno il concetto di fustigazione, e allora è necessario descriverlo, farlo saltar fuori, guardare questo processo con stupore, realizzare quella che Sklovskij chiama la sottrazione dell’oggetto all’automatismo della percezione, che consiste nel farsi crescere dentro la pancia una piccola macchina per lo stupore, e questa pratica, dicevo, lo straniamento, vedere le cose come se le si vedesse per la prima volta, fare finta di non conoscerle, non è solo una strategia letteraria, è una cosa che succede anche nella vita di tutti i giorni.

Paolo Nori, La morte di Ivan Il’ič, Prefazione

Il faut que jeunesse se passe

Negli affari, nonostante la sua giovane età e la sua inclinazione alla più leggera spensieratezza, era straordinariamente riservato, formale e persino severo; ma in società era spesso frivolo e arguto, sempre bonario,
decoroso e bon enfant, come dicevano di lui il suo capo e la moglie del capo, dei quali era diventato intimo.
In provincia cera stata anche una relazione con una signora che si era appiccicata all’elegante giurista; c’era stata anche una modista; c’erano state bisbocce con i nuovi aiutanti di campo e giri in carrozza, dopo cena, in strade remote; c’erano stati servizi al proprio capo, e anche alla moglie del capo, ma tutte queste cose avevano, in sé, un tono tale di alta moralità che non potevano essere definite con delle brutte parole: tutte queste cose potevano essere rubricate con la massima francese: il faut que jeunesse se passe. Tutto veniva fatto con mani pulite, con camicie pulite, con parole francesi e, soprattutto, nella più alta società, quindi con l’approvazione dele persone altolocate. Così Ivan Il’ič aveva passato cinque anni, finché non era intervenuto un cambiamento negli incarichi. Erano apparse nuove istituzioni legali: c’era bisogno di uomini nuovi.
E Ivan Il’ič era diventato uno di questi uomini nuovi.

Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič

…come in House of Cards

Compartimentalizzazione

Quando il rapporto d’ufficio fosse finito, sarebbero finiti anche tutti gli altri rapporti. Questa capacità di separare la vita impiegatizia dalla sua vita vera, Ivan Il’ic la padroneggiava al massimo grado e con la lunga pratica e con il talento l’aveva elaborata fino al punto che, come un virtuoso, delle volte si permetteva, come per scherzo, di mescolare i rapporti umani coi rapporti di lavoro. Se lo permetteva perché senti va, in sé, la forza di separare di nuovo, quando fosse stato necessario, l’elemento ufficiale e di mettere da parte quello umano. Questa cosa riusciva a Ivan Il’ic non sono leggermente, piacevolmente e decorosamente, ma perfino in modo virtuosistico. Negli intervalli fumava, beveva il tè, parlava un po’ di politica, un po’ del più e del meno, un po’ di carte e, soprattutto, di nomine. E, stanco, ma con il sentimento del virtuoso che sa di aver eseguito correttamente la sua parte di primo violino in un’orchestra, tornava a casa.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 50

Malattia

Mi ricorda Uno Nessuno Centomila

Tutti stavano bene. Non si poteva chiamare malattia quel che Ivan Il’Ič diceva ogni tanto di avere in bocca, uno strano sapore, e quel certo fastidio che sentiva nella parte destra del ventre. Ma era successo che quel fastidio aveva cominciato
a crescere e si era trasformato non in un vero e proprio dolore, ma in una costante sensazione di pesantezza al fianco, e in cattivo umore. Questo cattivo umore, diventando sempre più forte, aveva finito per distruggere la gradevole levità e il decoro che c’erano in casa Golovin. Marito e moglie avevano cominciato a litigare sempre più spesso, e ben presto erano scomparse la levità e la gradevolezza e a malapena era sopravvissuto il solo decoro. Le scenate si erano rifatte frequenti. Rimanevano ancora solo quelle famose isolette, poche, anche quelle, su cui marito e moglie potevano incontarsi senza esplodere. E Praskov’ja Fèdorovna diceva, ormai non senza fondamento, che il marito aveva un brutto carattere. Con l’abitudine a esagerare che le era propria, diceva che Ivan Il’ič aveva sempre auto un carattere orribile e che ci era voluta tutta la sua bontà per sopportarlo

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 52

Dal riassunto del dottore, Ivan Il’ič era arrivato alla conclusione di star male, cosa che a lui, al dottore, forse non interessava, forse a nessuno, interessava, ma lui stava male. E questa conclusione aveva stupito dolorosamente Ivan Il’ič, suscitandogli un senso di grande pena per se stesso e di grande rancore per quel dottore tanto indifferente verso una questione così im-
portante.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 54

[…] stava male, molto male, o non era niente? E gli era sembrato che il senso di tutto quel che aveva
detto il dottore fosse che stava molto male. Tutto, per
strada, era sembrato triste, a Ivan Il’ič. I cocchieri erano tristi, le case erano tristi, i passanti, le botteghe erano tristi. Quel dolore, quel dolore remoto, sordo, che non smetteva neanche per un secondo, sembrava avesse preso, alla luce degli oscuri discorsi del dottore, un nuovo significato, più grave. Ivan Il’ič gli prestava adesso ascolto con un nuovo sentimento di pericolo.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 55

Non è possibile che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile

E non riusciva a capire e cercava di scacciare questo pensiero come un pensiero bugiardo, sbagliato, morboso, e di espellerlo per mezzo di altri pensieri giusti, sani. Ma quel pensiero non era già più un pensiero, era, in un certo senso, realtà, e tornava indietro e si fermava davanti a lui.
E lui richiamava, a turno, una serie di altri pensie-
ri al posto di questo, nella speranza di trovare, in loro,
un punto d’appoggio. Provava a tornare alla precedente catena di pensieri che nascondevano, un tempo, il pensiero della morte. Ma, era strano, tutto quello che un tempo nascondeva, offuscava, liquidava la coscienza della morte, adesso, ormai, non faceva più effetto.

Ivan Il’ič, negli ultimi tempi, gran parte del suo tempo la passava in questi tentativi di ristabilire la precedente catena di emozioni che gli nascondeva la morte.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 67

La verità, una volta che si palesa, possiede una sorprendente capacità di permeare e vanificare qualunque tentativo di distrarsi e ignorarla. La verità della morte, fattasi prossima, diventa inevitabile, insistente, opprimente. Tolstoj ha la perizia geniale di chiamarla lei, la verità. Di personificare qualcosa, qualcuno, che non vuoi ma non riesci nemmeno a conoscere, finché poi diventa troppo tardi. Non ci sono vie di mezzo, per la verità/la morte: o è un remoto presentimento che non mi riguarda ancora, o è una realtà talmente prossima da apparirmi di fronte bloccandomi ogni via di fuga:

come se lei riuscisse a permeare tutto, e niente potesse offuscarla

Tornava nello studio, si coricava e restava di nuovo solo con lei. Faccia a faccia con lei, e con lei non c’era niente da fare: solo guardarla e rabbrividire.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 69

Le droghe sono un sollievo effimero e controproducente nel lungo termine:

Dormiva sempre meno; gli davano dell’oppio, e avevano cominciato a iniettargli della morfina. Ma la cosa non lo sollevava. L’angoscia ottusa che provava nello stato di dormiveglia all’inizio l’aveva sollevato, perché era una cosa nuova, ma poi era diventata ancora più tormentosa della piena sofferenza.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 70

Per di più, lei, nella sua onnipresenza, porta ad un rassegnato realismo

Lui invece sapeva che, qualsiasi cosa avesse fatto, non ne avrebbe ricavato niente se non altre tormentose sofferenze e la morte.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 73

??? Non capisco il significato metaforico del personaggio ci Gerasim

Iactatio animi:

Sempre la stessa cosa. Brillava una goccia di speranza, e si gonfiava un mare di disperazione, e sempre quel dolore, sempre quel dolore, sempre quell’angoscia e sempre, sempre la stessa cosa.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 77

La menzogna

L’aria intorno all’Ivan Il’ič morente è governata da tre sentimenti fondamentali: incomprensione, menzogna, imbroglio. Eccetto Gerasim, nessuno sembra essere (o è) in grado di pensare e fare le cose giuste. Primo fra tutti il dottore, prima colpevole di non parlare in modo chiaro, imbrogliando confondendo la realtà delle cose, successivamente mascheranodosi di una positività e allegria solo venefiche. Le visite sono esclusivamente delle formali vanità, futili e irrilevanti, se non formalmente. Ivan associa l’ipocrisia nel proprio vissuto, le arringhe degli avvocati, alla stupidaggine del rito inutile delle auscultazioni:

E, messa da parte tutta la giocosità di prima, aveva
cominciato a visitare il malato con aria seria, gli ave-
va sentito il polso, gli aveva provato la febbre ed erano
cominciate le percussioni, le auscultazioni.
Ivan Il’iè sapeva bene, e senza alcun dubbio, che
erano tutte sciocchezze, che era tutto un inutile im-
broglio, ma quando il dottore, inginocchiato, gli si era steso sopra, applicando l’orecchio prima più su, poi più giù, e, con un’espressione significativa sul viso, aveva
compiuto su di lui le più varie evoluzioni ginniche,
Ivan Il’iè gli si era arreso completamente, così come
si arrendeva, un tempo, alle arringhe degli avvocati,
anche se sapeva benissimo che mentivano tutti e sa-
peva perché mentivano.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 78

Come il caro Walter White con sua moglie:

Tutto quello che faceva per lui, la moglie lo faceva solo per se stessa, e gli diceva che lo faceva per se stessa - e lo faceva veramente per se stessa - come se dicesse una cosa inverosimile, che lui avrebbe dovuto capire al contrario

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 79-80

Ogni elemento che può ricondurre a gioia e/o salute è vissuto come un’ostentazione e un insulto:

Era entrata la figlia, in ghingheri, con il giovane
corpo scoperto, quel corpo che costringeva lui a soffrire così tanto. È lei lo metteva in mostra. Era forte, in salute, evidentemente inamorata e indignata dalla malattia, dalla sofferenza e dalla morte che ostacolavano la sua felicità.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 81

L’ingiustizia

Aveva aspettato solo che Gerasim passasse nella stanza vicina, e non si era più trattenuto ed era scoppiato a piangere come un bambino. Piangeva sulla propria impo-
tenza, sulla propria orribile solitudine, sulla crudeltà
degli uomini, sulla crudeltà di Dio, sull’assenza di Dio.
Perché hai fatto tutto questo? Perché mi hai porta-
to qui? Perché, perché mi tormenti così orribilmente?

Non aspettava risposta, e aveva pianto sul fatto che
non cera e non poteva esserci una risposta. Il dolore era cresciuto ancora, ma lui non si era mosso, non aveva chiamato. Aveva detto a se stesso: Dai, ancora,
dài, colpisci! Ma perché? Cosa ti ho fatto, perché?

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 84

Giacomo Leopardi:

Ma, cosa strana, tutti questi momenti migliori della sua vita piacevole, adesso non gli sembravano affatto come gli erano sembrati allora. Tutti, tranne i primi ricordi dell’infanzia. Lì, nell’infanzia, c’era stato qualcosa di effettivamente piacevole, che si poteva rivivere, se fosse stato possibile tornare indietro. Ma quella persona che aveva sperimentato quei momenti piacevoli non c’era ormai più: era come il ricordo di qualcun altro.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 85

La morte

Una crescente solitudine circonda Ivan, portandolo a ripercorrere più volte la sua vita:

Uno dopo l’altro gli si presentavano quadri del suo passato. Si iniziava sempre con il passato più recente, e si finiva per arrivare al più remoto, all’infanzia, e lì ci si fermava.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 87

E ancora, insieme a questa serie di ricordi, gli si era mossa, nell’animo, un’altra serie di ricordi su come si era aggravata e si era sviluppata la sua malattia. E anche qui, più si andava indietro, più vita c’era. E più c’era del bene, nella vita, e più c’era la vita stessa.
E le due serie di pensieri si univano.
“I tormenti son
sempre peggiori più si va avanti, e così tutta la vita,
andando avanti, è diventata sempre peggiore,
pen-
sava. c’era un punto luminoso, là, indietro, all’inizio
della vita, e poi tutto era diventato sempre più ne-
ro, e tutto era diventato sempre più veloce.
“Inversa-
mente proporzionale al quadrato dele distanze dalla
morte,
aveva pensato Ivan Il’ié. E questa immagine
della pietra che precipitava con velocità in costante
aumento gli si era impressa nell’animo. La vita, una
serie di sofferenze accelerate, precipita sempre più
velocemente verso la fine, verso la più terrible del-
le softerenze.
“Io precipito.
Trasaliva, si muoveva,
voleva opporsi; ma sapeva già che non si poteva op
porre e ancora, con gli occhi stanchi per il guardare,
ma che non potevano non guardare quel che avevano
davanti, guardava lo schienale del divano e aspettava,
aspettava quell’orribile caduta, l’urto, la distruzione.
“Non ci si può opporre,
si diceva.
“Ma almeno capi-
re) perché, tutto ciò? Anche questo è impossibile. Si
potrebbe spiegare se dicessi di non avere vissuto co-
me si deve. Ma non si può ammettere, una cosa del
genere,
diceva a se stesso ricordando tutta la rego-
larità, la correttezza, il decoro della sua vita.
“Non si
può ammettere!”
diceva fra sé sorridendo con le lab-
bra, come se qualcuno potesse vedere quel sorriso e
esserne ingannato.
“Non c’è nessuna spiegazione! La
sofferenza, la morte… Perché?”

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 88

Il dubbio di avere sbagliato tutto

Le sue sofferenze morali consistevano nel fatto che quella notte, guardando il viso assonnato, bonario, con gli zigomi larghi, di Gerasim, gli era venuto in mente d’un tratto: ma guarda, forse davvero tutta la mia vita, la mia vita cosciente, è stata una vita sbagliata. Gli era venuto in mente che quello che prima gli sembrava impossibile, l’idea di non aver vissuto la propria vita come avrebbe dovuto, poteva essere la verità. Gli erano venute in mente certe sue pretese di lotta, appena percepibili, contro quello che veniva considerato buono dalle persone altolocate, pretese appena accennate che lui aveva subito allontanato da sé; gli era venuto in mente che proprio quelle potevano essere giuste, e tutto il resto poteva essere sbagliato. E il suo lavoro, il suo modo di stare al mondo, e la sua famiglia, e gli interessi sociali e professionali: tutto questo poteva essere sbagliato. Aveva tentato di difendere, di fronte a se stesso, queste cose. E d’un tratto aveva sentito tutta la debolezza di quello che difendeva. Non c’era niente da difendere. Ma se è così, si era detto, e io esco dalla vita con la coscienza di aver sperperato tutto quello che mi era stato dato, e non si può rimediare, allora? Si era steso supino e aveva cominciato a riesaminare daccapo tutta la sua vita in modo nuovo. Quando aveva visto, quel mattino, il lacchè, poi la moglie, poi la figlia, poi il dottore, ogni loro movimento, ogni loro parola gli confermava l’orribile verità che gli si era rivelata la notte. In loro vedeva se stesso, tutto quello di cui aveva vissuto, e vedeva chiaramente che era tutto sbagliato, era un orribile enorme inganno che nascondeva la vita e la morte. Questa consapevolezza accresceva, decuplicava le sue sofferenze fisiche. Gemeva, si agitava, si strappava i vestiti. Gli sembrava che lo soffocassero e lo schiacciassero. E per questo li odiava. Gli avevano dato una forte dose di oppio, aveva perso i sensi; ma a pranzo era ricominciato tutto come prima. Cacciava via tutti e si agitava, cambiava posizione.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 90-91

Gli ultimi giorni della vita di Ivan Il’ič sono caratterizzati da un alternarsi di odio e pietà verso coloro che gli stanno intorno. Culminando con quest’ultima sul letto di morte.

D’un tratto, una qualche forza sconosciuta l’aveva colpito nel petto, nel fianco, gli aveva fatto mancare il respiro ancora di più, l’aveva fatto sprofondare nel buco e là, alla fine del buco, qualcosa avevá brillato, Gli era successo quel che succede quando si viaggia nel vagone di un treno, quando si pensa di andare avanti e invece si va indietro, e d’un tratto ti accorgi della direzione del viaggio.
Sì, è stato tutto sbagliato, si era detto, ma non fa niente. Si può, si può fare qualcosa di giusto! Ma cosa? si era chiesto, e d’un tratto si era calmato.
Era successo alla fine del terzo giorno, un’ora prima della sua morte. In quel preciso momento il ginnasiale era entrato furtivamente nella stanza del padre e si era avvicinato al suo letto. Il moribondo continuava a gridare, disperato, e ad agitare le braccia. Una mano era capitata sulla testa del ginnasiale. Il ginnasiale l’aveva afferrata, l’aveva stretta alle labbra ed era scoppiato a piangere.
In quello stesso momento Ivan Il’ič era sprofondato, aveva visto la luce e aveva scoperto che la sua vita non era stata come avrebbe dovuto essere, ma che a questo si poteva ancora rimediare. Si era chiesto cosa si poteva fare di giusto e si era calmato mettendosi in ascolto. Allora aveva sentito qualcuno che gli baciava la mano. Aveva aperto gli occhi e aveva visto il figlio. Aveva avuto pietà di lui. La moglie gli si era avvicinata. l’aveva guardata. Lei, con la bocca aperta, le lacrime che scorrevano sul naso e sulle guance, senza che le asciugasse, lo guardava con un’aria disperata. Aveva avuto pietà di lei.
Si, li tormento, aveva pensato. Mi fanno pietà, staranno meglio, quando sarò morto. Voleva dirlo, ma non aveva la forza di pronunciare la frase. perché parlare, bisogna fare, Del resto, aveva pensato. Aveva indicato con gli occhi il figlio alla moglie, e aveva detto: Portalo… mi fa pietà… anche tu…. Voleva dire anche scusami, ma aveva detto usami e, non avendo la forza per correggersi, aveva agitato una mano, sapendo che chi doveva capire avrebbe capito.
E d’un tratto gli era sembrato chiaro che quello che lo faceva penare e non voleva andar via, se ne stava andando via d’un tratto, tutto in una volta, da due parti, da dieci parti, da tutte le parti. Gli facevano pietà, bisognava fare in modo che non stessero più male. Liberarli e liberare se stesso da quelle sofferenze. Com’è bello e com’è semplice, aveva pensato. E il male? si era chiesto. Dov’è andato? Be’, dove sei, male?
 Si era messo a ascoltare.
Eccolo qua. Be’, è lo stesso, sta’ pur qua.
E la morte? Dov’è?
Aveva cercato la sua solita paura della morte, quella di prima, e non l’aveva trovata. Dov’era? Che morte? Non c’era nessuna paura perché non c’era nessuna morte.
Invece della morte c’era la luce.
Ah, è così! aveva esclamato d’un tratto. Che meraviglia.
Tutto questo era successo in un attimo, per lui, e il significato di quell’attimo non era più cambiato. Per i presenti la sua agonia era durata altre due ore. Nel suo petto qualcosa gorgogliava; il corpo estenuato sussultava. Poi si erano fatti sempre più radi il gorgoglio e il rantolo.
È finita, aveva detto qualcuno sopra di lui.
Lui aveva sentito quelle parole e le aveva ripetute nel suo animo.
È finita la morte, si era detto. Non c’è più.
Aveva aspirato l’aria, a metà del respiro si era fermato, aveva allungato le membra e era morto.

Lev Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, p. 93-95

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